Madera balza: un atto d’amore

Si stava meglio quando si stava meglio, ovvero ai tempi in cui la liquefazione della musica era nel pensiero degli angeli e noi non si viveva ancora in questo “Horror pleni”, in questa – bramata – abbondanza che è diventata talmente sovrammisurata rispetto alle umane possibilità di ricezione che ha finito per sommergere e inquinare la nostra attenzione, la nostra capacità di ascolto.
Compriamo schede di memoria sempre più capaci e stipiamo nei lettori digitali quanta più roba possibile per poi non fare altro che saltare velocemente da una traccia all’altra perché annoiati, o perché quel brano non va bene in quel momento, o perché ansiosi di scoprire cosa viene dopo, sperando di farci sorprendere dall’inedito accoppiamento di chissà quali stili e tentare di riemozionarci come quando i “mixed by” erano farina del nostro sacco e passavamo intere giornate a progettare come riempire nella maniera più fantasmagorica possibile i due lati di una C90.
Abbiamo demandato la ricerca delle emozioni alla funzione “shuffle”.
Il deficit di attenzione è indotto dal sistema, volontariamente o meno.
“Less is more” sarà pure un luogo comune, ma tant’è.
Prima di Benjamin la musica si faceva, poi abbiamo cominciato ad ascoltarla (e a comprarla).
Il 78 giri, il 45, poi il concetto del 33, poi il CD coi suoi settanta minuti da riempire a volte con la musica a volte, più spesso, con note così, tanto per.
Adesso si sono aperte le cateratte digitali e la definizione di “liquidità” applicata alla musica si sposa assai bene col concetto di tsunami, o meglio, con quello che rimane dopo uno tsunami.
L’uomo è decadenza, alla faccia delle magnifiche sorti e progressive.
Ogni tanto ci si appiglia, per fortuna.
Ogni tanto emerge un che di bello tale da farci svegliare dal torpore della ridondanza e farci assettare comodi su una poltrona, davanti alle casse dello stereo, ben piazzati al vertice del triangolo left/right/io e zitti, comodi e ben concentrati sùggere ogni stilla dalla bentrovata “emergenza” sonora.
Stavolta è un disco asciutto, essenziale e paradossalmente ricchissimo: pianoforte e voce, tanto per stare leggeri (e un cincinino di bombo legüero, minimale, così, giusto per ricordare a me stesso che su queste pagine ero partito per scrivere più di percussioni che altro).
Un disco fatto di brani noti e brani originali, bellissimi [A due passi da te, Passavamo (per Sergio Atzeni), L’uomo che per caso, ecc.].
E qui già il primo punto: l’omogeneità tra l’inedito e il già sentito (a volte anche strasentito ma non sempre ciò è negativo, non nei casi come questo dove l’èdito trascende).
È alto il livello di scrittura musicale del pianista Natalio Luis Mangalavite, da Córdoba, Argentina, così come è alto quello testuale dell’attrice e cantante Monica Demuru, cagliaritanoristanese, gianessa bifronte: raro trovare chi eccelle in siffatta maniera in due campi diversi: per l’ars musicale basta aprire orecchie e anima, per quella recitativa leggersi curricula e premi (meglio ancora: smuoversi dal divano e andare a teatro).
Nomi non esattamente noti alle masse, e sennò che mundo a patas arriba sarebbe?

Dicevamo dei brani strasentiti: trovare in scaletta Gracias a la vida, Vuelvo al sur, De André, Conte ecc. potrebbe far alzare un mezzo sopracciglio.
Poi i brani li senti, e li risenti, e li strarisenti, e non ne hai mai abbastanza.
Aveva, anzi, ha ragione il duo, nonostante La Negra declinata all’ennesimo, la sovraesposizione postmortem faberiana, le tante volte che siamo venuti via con te, ecc.
È un disco indubitabilmente marchiato dal jazz, però lontano dagli stereotipi del genere: è la maestria e l’apertura mentale del musicista jazz che va oltre lo stile precipuo e si mette a servizio della musica tout court, che sia popolare, d’autore, alta, bassa o altro ancora.
È questo il segreto che eleva, caratterizza e contemporaneamente omogeneizza i brani di così varia estrazione: Nana Mouskouri cantata prima in greco e poi in francese che va a braccetto con la negra, l’altra negra, quella presuntuosa che viene dal Perù, anche se il landó peruano “tecnicamente” non c’è, ispanìa che sta alla lusofonìa un po’ cartolinesca di Vinicius e Toquinho, infatti questo è un Brasile che suona poco come tale (per non parlare della chicca della chiosa gershwiniana) e che infatti sta all’idea del passo di surdo più marcato dell’inedito Margherita, che non a caso si triangola piacevolmente con l’asse sardogenovese dei Monti di Mola deandreiani, così come questo sta alle tante volte che abbiamo pianto volvendo a quel Sur y “…su buena gente/su dignidad…” e che invece riesce ancora a sorprenderci e meravigliarci pure per l’aggiunta di quel tocco “blue” dell’enormissima Demuru che segue l’improvvisazione breve e intensamente tanguéra dell’altrettanto dimensionabile Mangalavite ecc. ecc.
Il quale si definisce un pianista che tende al minimale.
Minimalista, insomma.
Certo non stiamo dalle parti della quantità esplosiva di note di un Oscar Peterson, tanto per citare uno scarso, ma il Nostro, anche quando suona meno, come nella meravigliosa Mariedda, ha un modo di accompagnare che è originale, generoso nei confronti del canto, nel lasciar spazio alla voce, un comping che rimane comunque ricco

La ritmica, oltre alle puntute scelte armoniche, è uno dei tratti della bellezza di questo lavoro, le acrobazie fra i due protagonisti, nell’originale Africaes, per es., sono magistrali, e come non parlare dell’imperioso “pianoforte andino” di Vieni via con me?
La scansione irregolare delle note (presente in maniera più o meno simile in tutte le culture popolari ma questa ha proprio lo stigma de “La Cordillera”), gli spazi fra un accordo e l’altro che si contraggono e si espandono in un continuo gioco di tensione e rilascio che dà vita a una pulsione irrefrenabile tesa a far “movér las caderitas”, a far danzare e farsi passare i cattivi pensieri.
Gioco di tensione e rilascio che “dà vita” e basta: non è forse l’oscillazione, la continua vibrazione delle particelle elementari, quella che sta alla base del mistero dell’esistenza?
E insieme a tutto questo si staglia uno spettacolo pirotecnico-vocale che lascia senza fiato (chi l’ascolta, non chi lo canta, che lì spremi spremi e pare che non finisca mai…).
Un volo che dal jazz casereccio dell’avvocato di Asti finisce al jazz mainstream passando per momenti kurtweilliani.

Madera Balza, edito nell’ottobre 2018 per la Tŭk di Paolo Fresu, è molto molto bello (qualora non si fosse capito…).
È un disco che trasporta e sorprende brano dopo brano.
È un disco che regala un sacco di emozioni diverse, alla faccia della ricerca dello stupore lasciato in mano alla funzione “shuffle”.
È un disco che lenisce il deficit di attenzione

P.s. Sono un giovinotto romantico, pertanto la declinazione geografica argentina di un colui che suona il piano mi fa stringere il corazón: mi porta immancabilmente al 1969, ai miei sei anni e al grande M° Eke Mendez, che, assieme ai suoi colleghi M° Enrique Gelusini e M° Hugo Eisemberg, ebbe la ventura di aprire una scuola di musica nel mio paesello.
Mi sembra ieri di sentire l’italiano ammorbidito dal castigliano del M° Mendez esortarmi a fare di più perché potenzialmente ero bravo.
Ero.

Affiliazione emotiva anche con Monica Demuru, più recente e diretta.
Agli inizi degli anni 2000 ci incontrammo a una festa di matrimonio di comuni amici, i quali avevano esortato gli invitati musicisti a portarsi appresso strumenti e voglia di aprirsi alle jam.
Io andai col mio gruppo di studio di cultura yoruba, terminata la performance di canti sul tamburo venni avvicinato da questa esile ed elegante figura (ovviamente non sapevo chi fosse) che mi chiese gentilissimamente se, con i miei tambores batá, avessi potuto accompagnarla in una ninna nanna.
L’invito a nozze nell’invito a nozze.
Mi lasciò libero di interpretare il ritmo come avrei voluto purché rispettassi un solo parametro strutturale del brano, un semplice stop da un certo punto, in modo da lasciare il finale tutto alla sola voce.
Fatto sta che forse per la scomodità della postura (non avevo previsto un supporto per i tre batá, i miei colleghi bataleri mi lasciarono da solo a pelare questa bellissima gatta – o forse la Demuru lo chiese esclusivamente a me in quanto mayor, non ricordo – e dovetti suonare praticamente steso a terra) o forse più probabilmente per la mia fragilissima emotività (quando ho sentito Monica cantare mi son detto: “Domina, non sum dignus” e non ci ho capito più niente) sono riuscito a sbagliare proprio l’unica cosa che non avrei dovuto sbagliare: continuai a suonare (almeno con grazia, nevvéro, almeno così dissero) fino alla fine…
Fu l’ultima volta nella mia (inesistente) carriera di percussionista in cui toppai gli obbligati, da allora mi sono talmente impegnato a espiare questo peccato al punto da irrobustire la memoria fino a non sentire più il bisogno di partiture.
Che ti devo di’? Grazie Monica e scusa ancora 🙂

(Foto di Tatiana Boretti)

3 pensieri riguardo “Madera balza: un atto d’amore

  1. Se riuscissimo ad epurarlo dalle lunghe digressioni sulle paturnie relative ai nostri tempi, l’articolo risulterebbe più bello.
    In ogni caso, mi ha convinto ad ascoltare i pezzi.

    “Vieni via con me” non mi sembra indimenticabile come il parallelo esempio, sono affezionata alla versione “parlata” dell’ancor giovane Benigni, ma gli altri due pezzi mi sembrano molto belli.
    Potrei osservare che “Passavamo…” fa parte del paradigma sardo; il che non è un male, ma un ascolto dalla terraferma può farlo sembrare un po’ esotico, tipo atteggiamento postcoloniale, diciamo.
    Con tutto l’affetto, caro mirror-witness (ti garba l’appellativo?), a volte nella tua scrittura c’è astio e una tendenza didascalica. Eliminati quelli, resta la scrittura fresca di uno che ama la musica. Di questo ti sono grata.
    Ciao!

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    1. Ohibò, che commentario d’excellence! 🙂 Cara Witness, ce lo sai che ridondo (in effetti è ‘ndifetto), ma quella pure è l’ansia di imbrattare ‘ste pagine sempre un po’ troppo abbandonate e le sante revisioni al testo me le scordo quasi sempre.
      Sul didascalico ti do pienamente ragione, tutto il pippone iniziale altro non è che quello ma la ragione per cui lo faccio è una semplice lotta contro la senilità: se non scrivo certe cose poi me le scordo…
      Riguardo l’astio poi me spieghi (così mi spiego e ti spiego), circa il neocolonialismo mi pare più paradigmatica Mariedda, ma sicuramente so’ io non ho capito che intendi.
      Grato per la grata, poffarre.
      Vedemose

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