Dopa Mina

Mina mi stava antipatica.
In TV vedevo solo una donna altera, distante e seriosa.
Mia mamma, sua coetanea, era decisamente più bella e simpatica.
All’età di cinque anni forse ero un po’ troppo giovane per apprezzare ‘ste cose, tant’è vero che mi ci vollero ancora sei stagioni (televisive) per incunearmi nel sentiero.
Da “Zum zum zum” di Canzonissima ‘68 e “Non gioco più” di Milleluci del ‘74.
Non si può dire che fossi travolto dalla passione però le note blu e l’armonica della sigla finale di Milleluci cominciavano ad acquisire un loro perché.
Passò qualche anno ancora e persi la brocca proprio per una fan di Mina…
Si dice che il formarsi del gusto musicale inizi sin dal grembo materno ma è dai dieci anni che gli schemi neurali – le connessioni cerebellari relative all’ascolto di quei suoni organizzati che chiamiamo musica – cominciano a serrare le fila, con un impennata intorno ai quattordici anni per assestarsi intorno ai diciotto/venti anni (non che ci si fermi lì, quello è un probabile limite anagrafico della “semina” del gusto, la base della nostra percezione dell’equilibrio tra banalità e complessità in musica, la definizione dello “schema” – per natura incline comunque agli ampliamenti – col quale giudicheremo i nuovi ascolti).
Era l’82 e, secondo quanto la teoria suddetta (Daniel Levitin, Fatti di musica, Codice Ed. 2009), feci appena in tempo a farmi piacere lo “schema” in cui rientravano (alcune del)le canzoni de la Tigre di Cremona.
Piacere indotto dal compiacere la ragazza di cui ero innamorato, è vero, ma l’impatto con “Attila” (disco peraltro del ‘79) fu sinceramente coinvolgente: voce (grazie al cavolo: è Mina), testi particolarmente adatti al mio periodo zuccheroso (e vabbè, le mutande in testa…), synth e percussioni suonati con molta eleganza (due tipologie di strumenti per le quali “ero andato in fissa”).
Per curiosità cominciai a scartabellare la discografia precedente ed ebbi la prova che c’è un’età per tutto: quelle cose detestate da ragazzino tornavano a suonare nella mia testa sotto forma di capolavori della canzone pop italiana (o magari pure sotto forma di versioni italiane di brani stranieri, le “cover”, però quelle belle)

Peccato che contemporaneamente non riuscivo più a farmi piacere le nuove incisioni: Kyrie lo trovavo incomprensibile, Salomè aveva qualche canzone piacevole e basta, Italiana fu forse un’eccezione ma già con Mina 25 tornai alla noia (a parte l’interpretazione dell’ennesimo brano di Serrat, Romance de curro “El Palmo”, tradotto da Paolo Limiti con “Ahi, mi amor”).
Per inerzia continuai a comprare vinili fino al ‘90, poi basta (nel ‘92 finì pure la storia con la tipa, magari c’era un nesso psicologico, chissà).
Da allora ai giorni nostri ho provato a sbirciare qualcosa relativo alle nuove produzioni ma niente, la Mina era il passato, quel passato.
Poi è uscito Maeba, 74° (!?) disco della Nostra, pubblicato il 23 marzo scorso e l’ho consumato (senza comprarlo, Spotify è una grande risorsa per gli appassionati ma una bella fregatura per i musicisti).

Decadimento del gusto come sintomo di vecchiaia?
Attaccamento al passato causa dell’inesorabile avanzare anagrafico?
Fatto sta che nel frattempo, tra l’82 e oggi, ho imparato ad apprezzare musiche che voi umani ecc. ecc. ma questo Maeba mi ha colpito quasi come fecero i dischi de la Mina a cavallo tra gli ‘70 e gli ‘80 (quelli prima del ‘78 rimangono un’altra cosa, fuoriclasse proprio, imho).
Per rimanere in tema nostalgico: mi ha fatto l’effetto di un Cynar (contro il logorio della vita moderna).
La vulgata attuale ci vuole sempre più stressati, sempre più impegnati a concorrere per vivere e vivere per lavorare e nel mio caso tutto ciò è aggravato da una strunzità endemica che porta tutta la componente negativa all’ennesima potenza ovvero a non vedere un euro e a non avere tempo per nient’altro che la sòma (strunzo con la “u” ha un’accezione diversa da stronzo con la “o”, qui nel mezzogiorno si usa per definire persone non particolarmente baciate dalla scaltrezza, diciamo, ecco).
Decisamente stressato e abbastanza “a secco” di ascolti per i motivi suddetti mi sono sorpreso nel sentirmi letteralmente rigenerato grazie a un casuale inciampo nel brano di apertura dell’ultimo lavoro della cremonese, “Volevo scriverti da tanto”.
La macchina del tempo l’abbiamo già inventata e si chiama “Musica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”: dx piano, synthino vintage in arpeggio semplice con uno zinzino di delay, contrappunto di chitarra acustica, melodia vocale spiralosamente avvolgente (petaloso sì e spiraloso no?) in continuo crescendo, fill di batteria burinissimo con tom iper riverberati a uso Phil Collins ma senza gate, esplosione di chitarra elettrica ché manco gli Homo Sapiens a Sanremo ed ecco servito il 1982.
La musica lenisce ogni dolore, lo sapevano già gli antichi mentre adesso i neuroscienziati riescono a spiegarci pure il perché: la risposta emozionale a quello che ascoltiamo percorre un cammino che va dall’orecchio al cervelletto al nucleo accumbens al sistema limbico causando la giusta secrezione di quella sostanza del piacere che si chiama dopamina.
Il centro emozionale dei nostri capacchioni malati e bisognosi di coccole è l’amigdala e non è un caso che autorevoli membri dello stato canaglia per eccellenza vogliano studiare come sopprimerla: leggete e rabbrividitene tutti, il transumanesimo è alle porte (ma questa è un’altra storia).
È evidente che non tutta la musica stimola i meccanismi appena descritti, ma solo quella che riusciamo a percepire come piacevole grazie a quella combinazione di genetica (conformità naturale alla consonanza), abitudine ed educazione all’ascolto e coinvolgimento emozionale relativo alla nostra personale storia di fruitori di musica.
Per questo rimango sempre senza risposta quando mi sento rivolgere la classica domanda “Quale musica ti piace?”.
A ciascuno di noi piace quello che piace a ciascuno di noi.
Non esistono metri scientifici di misurazione del gusto.
Parafrasando Toscanini, che diceva di non capire le donne e l’intonazione dei contrabbassi, posso dire di non capire chi si ostina a prendere in giro chi ascolta musica che reputiamo più “banale” rispetto a quella che sentiamo noi: il confine tra banalità e complessità è soggettivo come soggettivo è l’equilibrio fra questi due limiti e l’equilibrio è il vero metro.
Quindi il metro è soggettivo.
(Non è sempre vero che non capisco i perculatori, a volte sfottere è divertente e liberatorio, molto).
Ricordo un vecchio amico di quei tempi (‘70/’80) che si vantava del fatto che il suo stereo non avesse mai “cantato in italiano”.
Che dire?
Dal piatto “banale” della mia bilancia del gusto non posso biasimarlo per non aver mai diffuso i Cugini di Campagna o Viola Valentino ma da quello “complesso” il biasimo sembrerebbe necessario per via dell’aver soprasseduto sugli Area, Perigeo, Stormy Six e cose così.
La solita saggezza degli antichi chiude il cerchio (“de gustibus ecc. ecc.”).
Tornando a Mina.
Maeba è un condensato singolo di quei mitici vinili doppi degli anni passati: un mix di roba buona e roba non esattamente necessaria (la PDU distribuiva con regolarità non a caso svizzera un LP doppio ogni anno, uno di “cover” e uno di inediti).
I brani originali, tranne un paio, avrebbero fatto la loro figura pure se fossero usciti nel periodo succitato, tra il ‘79 e l’82, appena dopo il ritiro “Mazziniano” dalle scene live.
E pure le cover, insomma… sarà un mio difetto ma ritengo che, sempre dal ritiro dalle scene nel’78 e quindi dalla produzione del dopo Bussola in poi, la maggioranza delle reinterpretazioni fatte da Mina sia stata a dir poco scialba (ad es. cose così non le ha più rifatte).
Discorso a parte merita il brano con Paolo Conte, non necessarissimo manco quello ma curioso e piacevole anche per il gioco del testo (“’A Minestrina”) e l’età dei cantanti, declamato in un improbabile napoletano che pur volendo omaggiare la tradizione canora partenopea ne scalfisce appena la superficie lasciando lontana la sostanza, è il classico omaggio da piano bar degli anni ‘60 fatto da chi napoletano non è ma parlando del ruvido Conte e della scioglievolissima Mina ce lo sentiamo comunque con simpatia e affetto.

Insomma, 74 dischi e 78 anni, la Tigre continua a graffiare mentre all’orizzonte non si vedono sostitute.
O forse sì, Chiara Civello, elegante, raffinata, dalla voce carezzevole come fosse fatta di tessuto caldo e prezioso, diversa dalla Mazzini, meno acrobatica e assoluta ma in grado di rimembrare perfettamente il “mood” degli anni belli riuscendo a essere sia evocativa che contemporanea alla stesso tempo.
Infatti in Italia non ha la considerazione che meriterebbe.
Magari ne parleremo in un altro post
(qui con Chico Buarque, mica pizza e fichi)

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