Del Progressive le magnifiche sorti e progressive

Sembrava fossi appassionato dei Genesis, finché da adulto scoprii di aver dimenticato quasi tutto fra titoli, melodie, nomi, cose, città, animali, eccetera.
Brutto affare per un fan, evidentemente ero un falso positivo (ma col tempo ho recuperato tutto il piacere dell’ascolto di quei dischi, complice la recente rimasterizzazione della discografia Gabriel/Hackettiana dei Nostri).
Nell’Italietta provinciale di metà anni ‘70 quella musica, tante volte bollata come pretenziosa, la si conosceva come rock sinfonico, o rock barocco (?) e a noi rampolli di mite stirpe cattolica serviva anche come assoluzione dal peccato di trasgressione: un rock che mischiava la potenza sonora della musica del diavolo con la complessità e la grazia della musica classica non poteva essere troppo difficile da far accettare ai familiari che ci volevano invece ben saldi sui binari dell’ascolto e dello studio della musica colta (ovviamente i genitori solevano chiamare comunque l’esorcista, fosse stato per loro manco Gigliola Cinquetti, per dire…).
E così avanti – e di nascosto – con Genesis, Yes, King Crimson, Gentle Giant, Jethro Tull, Emerson Lake &Palmer, VDGG ecc.
Tutti gruppi diversissimi fra loro ma tutti in qualche modo riconducibili a quel grande calderone che risponde al nome di rock progressivo.
E che orgoglio nel sapersi conterranei di PFM, Banco, Orme e tanti altri.
Smisi con l’affezione al genere dopo il doppio knock out di “Jet lag”, indigeribile contaminazione jazz rock della PFM, e “And then there were three”, delusione massima del trio pop che misteriosamente continuava a chiamarsi Genesis.
Dicono le cronache che in realtà il prog era già morto forse da un paio d’anni o poco più.
Del progressive “le magnifiche sorti e progressive” finirono esattamente come l’epigrafe de La Ginestra del sommo Giacomino da Recanati: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”.
Esaurita la spinta vitale del costume sociopolitico, della colonna sonora di parte della controcultura giovanile degli anni ‘70, ormai quel modo di fare musica era assurto al rango di “maniera”.
In Italia uno dei segnali del canto del cigno fu l’insuccesso commerciale del disco della Locanda delle Fate, “Forse le lucciole non si amano più”, album capolavoro del ‘77, uscito ormai fuori tempo massimo, ormai senza più il “tiro” del trend.
Roba da lasciare l’amaro in bocca, anzi, direi proprio l’Amarone… (Battuta tremenda, chiedo perdono ma chi vuole capire cosa c’entri il re dei re dei vini italiani si armi di pazienza e mi segua però siete avvertiti: il post è lungo).
Rovesciando la prospettiva si potrebbe tranquillamente asserire che il disco della band di Asti fu il primo dei grandi album manieristici del rock progressivo.
Quasi una cerniera tra il periodo “classico” prog e quello “classicistico” neoprog, termine coniato nei primi anni ‘80 grazie all’irruzione sul mercato di gruppi di una certa levatura come furono i primi Marillion.
Adesso a distanza di oltre quarant’anni la creatività nel prog non è affatto morta, anzi, tuttora si continua a proporre questa musica con costanza: chi “semplicemente col modo di maniera”, chi con la sperimentazione di nicchia, chi con l’allure internazionale di star mainstream erede dei grandi.
Prendiamo Steven Wilson, ad esempio, formidabile cesellatore di suoni e capace di inanellare tanti dischi interessanti in cui le atmosfere prog a volte si fondono col metal dandoci sempre tante e nuove soddisfazioni, almeno fino al recente “To the bone” in cui sembra abbia esaurito le cartucce dell’invenzione e pare vada adeguandosi a schemi più “easy”.
A volte sembra di sentire gli Anathema, che non sono manco male, ma certamente non sono Steven Wilson.
Lo aspettiamo al varco delle prossime produzioni, senza tante speranze, consolandoci col fatto che come sound engineer si diletti a rimasterizzare alcuni capolavori degli anni buoni con ottimi risultati sonori (Tales from topographic ocean degli Yes, Songs from the wood dei Jethro Tull, Octopus dei Gentle Giant e altro).
Diverso il discorso dei King Crimson, eredi di loro stessi, “automanieristi”, i quali hanno continuato una onorata carriera all’insegna del genio sghembo della scrittura di Robert Fripp anche se ultimamente pare che si presentino sul mercato solo con una serie di live in cui rimescolano il loro glorioso repertorio aggiungendo sempre più complessità ritmica: tre drumset contemporaneamente, arrangiamenti formidabili che assieme al resto degli altri strumenti formano fraseggi e incastri di enorme potenza e precisione matematica, vera e propria sostanza stupefacente.
Dei “creativi” quelli che quest’anno mi hanno particolarmente colpito sono stati gli Psychic Equalizer, gruppo del pianista càntabro Hugo Selles.
Disco strano questo “The lonely traveller”, scarno e “arrangiato con l’accetta”, ovvero grezzo, dai suoni belli ma con alcune scelte stilistiche discutibili, se non addirittura bruttine (a mio parere, come sempre, come tutto quello che viene scritto su queste pagine).
Eppure affascinante, rilassante.
Accattivante, in una parola.
Sembra di sentire Satie che tenta di imparare a suonare jazz passando per i Genesis (Mezuz, gioco in seven beats perfidamente tendente al climax immediato per poi sgonfiarsi subito e risalire ancora verso l’estasi ma con più calma e metodo) dopo aver omaggiato i Pink Floyd (Nørrebro, una The great gig in the sky in sedicesimi).
“Progressive” sui generis (evitiamo facili giochetti di parole, please) ma indiscutibilmente afferente a una visione contemporanea dello stile, un mix di atmosfere che suonano sempre familiari ma nel contempo sorprendenti.
Dei grandi nomi storici è abbastanza inutile parlare, a parte i succitati Re Crèmisi: del sacro acronimo ELP è rimasta solo la P; risulta incomprensibile la scelta degli Yes che, al netto della perdita dolorosa di Chris Squire, hanno dato alle stampe un disco live senza Jon Anderson: ascoltare “Topographic drama – Live across America” con la voce del pur bravo Jon Davison equivale a mangiare una pizza margherita con le sottilette Kraft al posto della mozzarella di bufala.
Forse solo Peter Hammill continua a incidere dischi di un certo spessore, anche se sempre più crepuscolari e malinconici.
In Italia il discorso non cambia: decimato il Banco, Le Orme che si accapigliano per l’eredità onomastica ma poi scrivono nuova musica non esattamente memorabile, i superstiti degli Area continuano a suonare alla grande (forse i più grandi, imho) ma vanno avanti ognuno per sé, i gruppi storici “minori” non pervenuti, la PFM (o quel che ne resta, due originali e mezzo: Di Cioccio, Djivas e Fabbri) pare che sia viva e che lotti insieme a noi continuando a sfornare dischi che tutto sommato si lasciano ascoltare, l’ultimo “Emotional Tattoos” è un esercizio di maniera “fatto a modino” con grande mestiere, ben confezionato, (mi punge vaghezza sia stato fatto anche con tanto autotune…), qualche brano molto bello, gradevole ma comunque non all’altezza ad esempio del sottovalutato “PFM in classic” del 2013, a sua volta ipermanierista e scontato nel giocare a mischiare i generi di riferimento del progressive, rock e classica tout court, giochetto già fatto nel ‘71 dai New Trolls in forma di Concerto Grosso (tanto per sottolineare la distanza fra idea creativa e “tengo famiglia”, però il recente lavoro della Premiata, pur se anacronistico, è veramente un gioiellino incesellato tra rock, Mozart, Mahler, Prokofiev, Saint-Saëns, ecc.).
Parrebbe uno scenario un po’ bigio, non fosse che a tenere desta l’attenzione ci siano per fortuna i lavori degli indipendenti, bravi e appassionati al punto da pubblicare dischi validi e niente affatto “stanchi” o “grigi” come molte produzioni dei “grandi”.
Prendiamo i veronesi Marygold, per esempio, dopo undici anni dal primo CD “The guns of Marygold”, molto Marillion oriented, hanno appena pubblicato “One light year”, in cui il verbo della Charterhouse School band si fa più forte (o almeno così pare che Peter Gabriel chiami i vecchi Genesis).
Un disco che merita di essere ascoltato.
Sette brani corposi con una una bella tavolozza di suoni moderni e “vintage” i cui colori dipingono una miscela di emozioni, di “paintings” sonori che ricordano cose che vanno da “Trespass” a “Duke” passando per i Marillion del periodo Fish.
Sezione ritmica rocciosa, tastiere in primo piano, chitarre in grande spolvero (poco Hackett style, più Steve Rothery e Daryl Stuermer direi) e una voce il cui timbro sta fra PG, Fish e Bernardo Lanzetti, canto non esattamente potente ma sempre placidamente a suo agio nel bozzolo musicale dei Marygold.
Molto belli i due brani lunghi, “Spherax H2O” e “Lord of time”, pieni di cambi di tempo, di una grande varietà di atmosfere, di modulazioni particolarmente efficaci, di giochi ritmici, di tessuti sonori sempre piacevoli, profusione di Hammond, piano e Mellotron i cui intrecci assieme a quelli delle chitarre, sempre scintillanti, danno un grande valore aggiunto alla musica dei Marygold.
Impossibile non pensare a “The Lamia” in “Travel notes on Bretagne”, acquerello crepuscolare di ricordi di viaggio, come si evince dal titolo non esattamente in linea con il tipico ermetismo testuale del prog, dal ritornello molto suggestivo.
Qua e là si percepisce un suono à la “Squonk”, un “The cinema show”, qualcosa da “Foxtrot” e “Nursery crime”, un occhiolino a Emerson Lake & Palmer, ho percepito pennate di chitarra acustica in odore del III album degli Zeppelin, un po’ di Procol Harum, Moog solos che riportano ai tempi belli di Flavio Premoli (anche se il campionamento dello storico Mini non è perfettamente centrato ma si sa che nulla suona come lo strumento originale, più riconoscibile l’ARP di Tony Banks), un impasto che “profuma di colla bianca”, persino una citazione ravvicinata del terzo tipo di John Williams.
Ciò non vuol dire che la musica dei Marygold sia un semplice collage di cloni, anzi, i ragazzi hanno una bella personalità e nell’ambito del genere neoprog sicuramente il loro è un disco che vale e che merita un posto in prima fila nelle collezioni degli appassionati.

P.s. chi è arrivato fin qui e non ha capito la (terribile) battuta sull’Amarone può espiare la sua colpa in due modi: o comprando minimo due copie del disco o spedendomi a casa una bottiglia di quello buono che poi glielo spiego con calma…

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